strange

Lo strano destino delle parole, essere somiglianti, eppure così diverse l’una dall’altra, condividere un giudizio e una definizione, eppure avere distanze di significato che appartengono a dimensioni che di necessità le separano, in distinzioni che non possono appartenersi.

Il caso che accomuna la desinenza sonora di reale, ideale e virtuale – proprio nel rispetto di questa sequenza storica e primordiale – è peso e misura del disagio dell’individuo, ma dichiarata rivelazione dell’imbarazzo provato nel non sapere più quale sia il mondo nel quale si è destinati a vivere quello che per convenzione conosciamo come tempo.

Queste tre dimensioni, corni di una figura geometrica rigida e quindi inspiegabile, sono aspetti angolari che puntano per allontanarsi, ma non possono più scindersi se non come espressione di una patologia dell’esistenza, un luogo unico e altro di isolamento temporaneo, inevitabilmente temporaneo, almeno quanto la durata che ad ognuno spetta come vita.

E mentre è tutto questo, l’unica domanda che vale è “che cos’è amore”, se lo troviamo, se lo perdiamo, se davvero è per noi.

Ancora la poesia; se questo è lo strumento che fuoriesce da un processo di forgia, uno strumento di parola, unità che è reale, ideale e virtuale, che non è somma di parti ma cosa trasformata, del tutto nuova.

Questo veicolo trasporta “tutto di noi stessi” verso gli altri, non solo nel presente; (ma) venendo da lontano saremmo perduti se sapessimo anche una sola cosa di quello che potrebbe accaderci domani, soprattutto dell’amore.

 

 

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