Categoria: altri autori

un sopracciglio

«I blog sono depri­menti, defi­ni­scono tutto tra­mite le parole, manca un soprac­ci­glio che si sol­leva, o la mano che si posa su un brac­cio. Le nuove tec­no­lo­gie, per quanto utili, pos­sono essere una tra­ge­dia per­ché costi­tui­scono espe­rienze sma­te­ria­liz­zate men­tre noi esseri umani abbiamo la neces­sità di espe­rienze incarnate» (R. Sennett, in http://ilmanifesto.info/richard-sennett-dentro-la-corrosione-del-legame-sociale/).

Charles Leval, Street art 4.

Charles Leval, Street art 4.

BUON COMPLEANNO SIGNOR FAULKNER.

faulkner-gray

William Faulkner (25.9.1897-6.6.1962) non è uno scrittore facile da leggere. In una geografia degli autori, stilisticamente, lo possiamo considerare al polo opposto di Ernest Hemingway (21.7.1899-2.7.1961). Due grandi scrittori americani del ’900, praticamente coetanei, due vite molto diverse tra di loro, ma egualmente dedite all’abuso-abisso dell’alcolismo, due premi Nobel della letteratura (Faulkner del 1949, anche se poi assegnato nel 1950, Hemingway del 1954), due autori da leggere per non pochi motivi.
Se Hemingway è riconoscibile per una scrittura asciutta e “ritmata”, dai tratti emotivi impressi come una cronaca, Faulkner si distingue per una prosa articolata in periodi tessuti come una fitta rete di richiami, con una “spola linguistica” che per portare avanti la trama fa avanti e indietro in modo quasi ossessivo, martellando una ripetizione di parole ed espressioni dal potere ipnotico e dalla capacità viscerale di trascinare il lettore in un vortice, dove la superficie della realtà sprofonda in una dimensione mitica e primordiale dell’inconscio. Non è un caso se la “figura dell’incesto” ritorna come un motivo antropologico arcaico (un marchio di fabbrica?) in molti dei suoi libri. A partire dal sottofondo linguistico, da “rumore bianco” (il “ronzio” che in forma diversa ritroveremo negli autori postmoderni, in particolare Don DeLillo), Faulkner costruisce storie “bibliche” che si muovono nel “presente” della provincia americana sudista, ma che servono sempre a svelare, rivelare, disvelare l’epifania di un passato dai segreti impronunciabili, se non nella forma shakespeariana di “urlo e furore”.
Nel volume di Narrativa dell’antologia “Chiare stelle” (Bompiani Scuola, 2014), un brano di Faulkner è stato utilizzato come TP (testo di potenziamento) per l’Unità 1.8 “Discorso, stile e temi della narrazione” (vedi l’OpenBook), parliamo di “Luce d’agosto”, un romanzo del 1932, tradotto in italiano da Elio Vittorini e pubblicato da Mondadori nel 1939.
Come omaggio a questo grande autore, del quale oggi ricorre la data di nascita, di seguito proponiamo un “incipit” esteso del romanzo “Assalonne, Assalonne!” (1936), che casualmente comincia proprio in un “selvaggio” pomeriggio di settembre. È un consiglio di lettura, ma con il preciso avviso di lasciarsi condurre dalle parole e non dal senso, fidandoci dell’autore che ci prende per mano; e noi come gli adulti-bambini del romanzo, con l’inconsapevolezza di non sapere dove la storia ci stia portando, avremo bisogno di tenerci molto vicini a quella stretta, sapendo che chi ci sta accompagnando ci condurrà sempre e purtroppo a una verità assoluta e anche universale.

I.

«Da un po’ dopo le due sin quasi al tramonto del lungo immoto afoso estenuato morto pomeriggio di settembre rimasero seduti in quello che Miss Coldfìeld chiamava ancora l’ufficio perché così l’aveva chiamato suo padre – una buia stanza calda senz’aria con le persiane tutte chiuse e inchiavardate da quarantatré estati perché quand’era ragazza lei qualcuno era convinto che la luce e l’aria mossa portassero calore e che al buio facesse comunque più fresco, una stanza che (come il sole andava battendo sempre più piano su quel lato della casa) si zebrava di lame gialle dense di pulviscolo che Quentin pensava formato di minuscole scaglie della stessa vecchia vernice rinsecchita e morta in via di scrostarsi dalle persiane e sospinta all’interno come dalla forza del vento. C’era una pianta di glicini che fioriva per la seconda volta quell’estate su una graticciata di legno davanti a una finestra, da cui ogni tanto entravano i passeri a folate intermittenti, levando un secco suono vivido e polveroso prima di andarsene: e dirimpetto a Quentin, Miss Coldfield nell’eterno lutto che portava ormai da quarantatré anni, se per una sorella, il padre o un marito mancato nessuno sapeva, seduta così eretta nella dritta seggiola dura tanto alta per lei che le gambe le pendevano ritte e rigide come se avesse stinchi e caviglie di ferro, staccate dal pavimento con quell’aria di rabbia impotente e statica che hanno i piedi dei bambini, e parlava con quella sua cupa voce scarna e stupefatta fin quando si finiva per non poter più ascoltare e il senso stesso dell’udito si confondeva e il sepolto oggetto della sua frustrazione impotente eppure indomabile ricompariva, quasi evocato da quell’offeso ricapitolare, quieto disattento e innocuo, dalla paziente, sognante polvere vittoriosa.
La sua voce non s’interrompeva, semplicemente svaniva. C’era, col suo odore di bara, la velata penombra dolce e stradolce di glicini due volte fioriti sul muro esterno, investiti distillati e iperdistillati dal calmo sole selvaggio di settembre, in cui irrompeva di quando in quando il sonoro nuvoloso frullio dei passeri come un piatto bastoncino flessibile schioccato da un ragazzo con nulla da fare, e l’acre odore di vecchia carne femminile da tempo asserragliata nella verginità mentre la smunta faccia stralunata lo scrutava di sopra il fioco triangolo di pizzo ai polsi e alla gola dalla sedia troppo alta dov’ella pareva un’infante crocifissa; e la voce che non cessava ma svaniva in lunghi intervalli riaffiorandone poi come un rivo, un filo d’acqua sgranato da un’isoletta all’altra di sabbia asciutta, e il fantasma meditava con umbratile docilità come se fosse stata la voce stessa il luogo delle sue apparizioni laddove un altro più fortunato avrebbe avuto per sé una casa. Balzava da un tacito tuono (uomo-cavallo-demone) in una scena pacifica e decorosa come un acquerello da premio scolastico, capelli abiti e barba ancor impregnati d’un debole puzzo di zolfo, con aggruppata alle sue spalle la banda di negri selvaggi simili a belve».

W. Faulkner, “Assalonne, Assalonne!”, trad. di G. Cambon, Adelphi, Milano 2001, 418 pp., L. 36.000, € 18,59.

https://www.facebook.com/pages/Chiare-stelle/621393527958272

WWW.LIBEROS.IT

Inizia con il libro di Roberto Cotroneo (in tour con Éntula da giovedì: http://entula.liberos.it/#autori.cotroneo) la nuova rubrica curata da Fabio e Raffaele di Pietro, “Chiare stelle. Spunti letterari e recensioni di letture”.
Buona lettura!

PRESENTAZIONE RUBRICA

Per ogni lettore la ricerca di un “buon libro” da leggere rappresenta un momento di sospensione, una pausa che facilmente si colloca tra un libro appena finito e altri che invece si preferisce evitare. Così, per vagliare una nuova lettura si ricorre a strategie di ricerca personali e allo stesso tempo si è soggetti a influenze provenienti dai più disparati canali. Un consiglio dai media, un sentito dire, una sbirciata di copertine e quarte in una libreria reale o anche virtuale suggeriscono una scelta, puntando su una più o meno efficace opera di convincimento e di sponsorizzazione di testi. Ma non bisogna dimenticare come dietro queste voci ci sia sempre un pensiero che, attraverso un’interpretazione, permette il passaggio di un’informazione e la “vendita” di un prodotto.
È discretamente recente il ricorso all’immagine metaforica della “costellazione di autori”, per suscitare l’impressione di una mappa alta di autori che, incastonati lassù, nella volta celeste, compongono oroscopi di libri da “leggere perché…”. I motivi del “perché leggere il libro X” possono corrispondere a caratteristiche di genere, autorialità, riconoscimenti di premi (dal Nobel in giù) eccetera. A questo panorama “galattico” di recensioni e suggerimenti, già molto ampio, ora si aggiunge anche la rubrica Chiare stelle. Spunti letterari e recensioni di letture. Lo spirito propositivo della rubrica è quello critico di consigliare e non di sconsigliare letture. Una responsabilità di cui gli autori sono consapevoli, e allo stesso tempo uno spunto per “parlare di libri e letture”. Dal pre-testo della lettura al post-testo della conversazione: un esercizio mai vano per far tornare la parola comunicazione e la comunicazione scambio.
Buone letture a tutti.

http://liberos.it/notizie/categoria/Chiare+Stelle

Gli spostati

Poster - Misfits, The_012 marzo 1961

Caro Dottor Greenson,

ho chiesto a May Reis di battere a macchina questa lettera per me, poiché la mia scrittura non è chiaramente leggibile, ma ho anche incluso queste note e capirà cosa voglio dire.

M.M.

1 marzo 1961

Ho appena guardato fuori dalla finestra dell’ospedale e ormai, laddove la neve aveva ricoperto tutto, tutto è un po’ verde: l’erba e i piccoli germogli, quelli che non perdono mai le foglie (anche se gli alberi non sono ancora molto incoraggianti), i rami nudi e lugubri annunciano forse la primavera e sono forse segno di speranza.
Lei ha visto Gli spostati? In una delle scene, potrà vedere fino a che punto un albero possa apparirmi strano e nudo. Non so se si vede distintamente nello schermo… Non amo la maniera in cui certe scene sono state montate. Da quando ho cominciato a scrivere questa lettera, ho pianto quattro lacrime silenziose. Non so veramente perché.
La notte scorsa sono rimasta di nuovo sveglia tutta la notte. A volte mi domando a cosa serva il tempo notturno. Per me praticamente non esiste, e tutto mi sembra come un lungo e spaventoso giorno senza fine. Ed ho anche provato ad approfittare della mia insonnia in modo costruttivo e ho cominciato a leggere la corrispondenza di Sigmund Freud. Aprendo il libro per la prima volta, ho visto la fotografia di Freud e sono scoppiata in singhiozzi: aveva l’aria molto depressa (quella foto deve essere stata scattata poco prima della sua morte), come se fosse morto da uomo disilluso… Ma il Dottor Kris mi ha detto che soffriva molto fisicamente, cosa che avevo già letto nel libro di Jones. Ma penso anche di avere ragione, mi fido della mia intuizione perché percepisco un triste tedio sul suo viso. Il libro prova (anche se non sono sicura che si dovrebbero pubblicare le lettere d’amore di qualcuno) che era ben lontano dall’essere impacciato! Mi piace il suo senso umoristico dolce e un po’ triste, il suo spirito combattivo che non l’ha mai lasciato. Non sono ancora andata troppo avanti nella lettura perché sto leggendo allo stesso tempo l’autobiografia di Sean O’Casey (le ho già detto che un giorno mi ha inviato una sua poesia?). Questo libro mi sconvolge molto, nella misura in cui si può rimanere sconvolti da questo genere di cose.
Alla clinica Paine Whitney mancava del tutto l’empatia, il che mi ha fatto molto male. Sono stata interrogata dopo essere stata messa in una cella (una vera cella in cemento e tutto il resto) per persone veramente disturbate, i grandi depressi, (solo che avevo l’impressione di essere dentro una sorta di prigione per un crimine che non avevo commesso). Ho trovato questa mancanza di umanità peggio ancora che barbara. Mi hanno chiesto perché non stavo bene qui (tutto nella stanza era chiuso a chiave: le lampade elettriche, i cassetti, il bagno, gli armadietti, c’erano delle sbarre alle finestre… le porte delle celle erano come finestre così che i pazienti fossero sempre visibili, si vedevano sui muri le tracce delle violenze dei pazienti precedenti).
Ho risposto: “Eh beh, dovrei essere svitata per farmelo piacere”. Poi delle donne si sono messe a urlare nella loro cella, e credo urlassero perché la vita gli era diventata insopportabile… In quei momenti, mi sono detta che uno psichiatra degno di questo nome avrebbe dovuto parlare con loro. Per alleggerire la loro miseria e la loro pena, anche solo per un momento. Penso che loro (i medici) potrebbero anche insegnargli qualche cosa… Ma non sono interessati che a quello che hanno studiato nei libri. Ero sorpresa perché sapevano già tutto questo. Forse però potrebbero imparare qualcosa in più ascoltando degli essere umani vivi e sofferenti. Sento come se si interessassero più alla loro disciplina e lasciassero cadere del tutto i loro pazienti dopo averli fatti “piegare”. Mi hanno domandato di mescolarmi agli altri pazienti, di fare terapia di gruppo. “E per fare cosa?” ho domandato loro. “Potrà cucire, giocare a dama, o a carte, o fare la maglia”. Ho provato a spiegargli che il giorno in cui io farò delle cose simili, avranno veramente una svitata in più tra le braccia. Sono le ultime cose che mi va di fare. Mi hanno chiesto se mi sentivo “diversa” (dagli altri pazienti, suppongo) e mi sono detta che se erano talmente stupidi da fare simili domande, dovevo dargli una risposta bella semplice, quindi ho detto: “Sì, lo sono”.
Il primo giorno ho incontrato un’altra paziente. Mi ha domandato come mai ero così triste e mi ha suggerito di chiamare un amico per sentirmi meno sola. Le ho risposto che mi avevano detto che non c’era un telefono a questo piano. A proposito di piani, sono tutti chiusi a chiave: nessuno può entrare o uscire; lei mi è parsa shoccata e sorpresa e mi ha detto: “Lasciate che vi porti al telefono”. Aspettando il mio turno per il telefono, ho notato una guardia (l’ho riconosciuta dall’uniforme grigia) e quando stavo per alzare la cornetta me l’ha strappata dalle mani e mi ha detto con durezza: “A lei non è permesso telefonare”. E si vantano pure dell’ambiente “casalingo”. Gli ho domandato (ai medici) che cosa volessero dire con quell’espressione. Mi hanno risposto “Beh, al sesto piano, abbiamo della moquette per terra e l’arredamento è moderno”, al che io ho risposto “Bene, è il genere di cose che un qualsiasi architetto d’interni può fornire, una volta che ha i fondi necessari”, ma per occuparsi di esseri umani, perché non si rendono conto di quello che rende veramente un interno più umano? La ragazza che mi ha parlato del telefono aveva l’aria così vaga e patetica. Dopo l’incidente con la guardia, mi ha detto: “Non sapevo che l’avrebbero fatto”. Poi ha aggiunto: “Sono qui a causa delle mie turbe mentali… Mi sono tagliata la gola e i polsi più volte”, ha detto di averlo fatto tre o quattro volte. La sola cosa che avevo in testa nell’ascoltarla era un ritornello:

“Mescolatevi gli uni agli altri fratelli miei,
a meno che non siate nati solitari”.

Alla fine, gli uomini cercano di raggiungere la luna ma non sembrano molto interessati al cuore che batte nell’essere umano. Quand’anche potessimo cambiare, non per forza si dovrebbe volerlo. Questo a proposito, è il tema degli Spostati, ma nessuno se n’è reso conto. Immagino sia a causa delle modifiche al copione e dei cambiamenti imposti dalla sceneggiatura…

Marilyn Monroe (1926-1962), Fragments. Poesie, appunti, lettere, Feltrinelli.

«Voi,

«Voi, chiare strade maestre che vi estendete in lontananza dietro la città, voi viottoli di campagna, cui di lontano giungono i rintocchi dell’Avemaria! Può forse questo non dare la felicità? Credetemi, non c’è dolore al mondo che non possa essere placato con passo svelto e deciso su una strada di campagna sconosciuta. Tutti i dolori si fanno sopportabili sulla strada di campagna. Uno, due, uno, due, e già il dolore arriva in pulsazioni regolari, uno, due, uno, due, il dolore lotta ancora coi piedi, il cuore esita ancora, soffre, ma i piedi dicono: Ecco il mondo, ecco il mondo! E lentamente il cuore impietrito si schiude, comincia a smaniare, trabocca, poi si calma, infine è cullato, e ad un tratto può ancora ridere. Sono stati i piedi a trascinare il dolore fino alla morte, il dolore è morto, il mondo è qui, è qui. Ma ora, ti prego, non fermarti, non ora, se non vuoi che la disperazione ti ripiombi addosso. Va’ avanti, avanti ancora, per ore intere, fino alla spossatezza. Quando poi ti fermerai e i piedi taceranno, nel silenzio che si spande intorno a te, troverai forse – non posso prometterlo con sicurezza – due, tre lacrime».

M. Jesenská, La strada verso la semplicità, cit. in M. Buber-Neumann, Milena, l’amica di Kafka, Adelphi, Milano 1999.
____________

Non c’è bisogno di un commento per queste parole, sono semmai loro (le parole) a commentare “noi”, con un richiamo a percorrere quasiasi strada, da quelle maestre ai viottoli di campagna, anche se trascinati dal dolore o dal dolore sospinti, purché la volontà sia sempre quella di andare avanti.

[Milena Jesenská è morta a Ravensbrück il 17 maggio 1944 in un campo di concentramento nazista].

(Intorno all’amicizia)

(Intorno all’amicizia).
di Sabatina Napolitano

A Rita.

Ci trovammo sepolte,
nella navigazione
la brevità dell’Eden.
Occhi in perduti
paradisi, anima
come estensione
delle forme.
Conoscenza
svelta e assente:
autentici attimi.
Ci trovammo senza stagni,
frenesie dimenticate.
Come slancio
fondi di tempi recisi
e cosa mi rende totale,
di sensibilità animale
di sensi innocenti.

Dualismi e duelli verbali

Due note su alcune poesie di Sabatina Napolitano

Prendo per buona un’anticipazione dell’autrice, ovvero che la raccolta è costituita prevalentemente da una selezione della sua produzione “giovanile”.
Scendendo nel particolare, riporto solo due note che sono emerse nella mia lettura e che riguardano principalmente il tema del “dualismo”:

a) Il titolo merita una lettura interpretativa: l’accostamento dei due termini rivendica l’autonomia di ogni metastasi, quando il termine metastasi sta a indicare ogni singola composizione poetica e forse all’interno di ogni poesia altri elementi anch’essi autonomi, come la singolarità dei versi e la parcellizzazione prima delle espressioni e infine dell’accentazione posta sulla scelta delle singole parole, che compongono un quadro “clinico” e poetico, dove il processo di autonomia dichiarato mostra la necessità dell’autrice di scrivere per documentare non solo una richiesta di attenzione individuale, personale e soggettiva – come lo è per le metastasi –, ma anche una sequenza produttiva frammentata e frammentaria; quindi, l’elaborazione poetica si propone come una raccolta/selezione di poesie che attraversano un arco temporale che per l’autrice è stato anche quello della propria formazione umana, sentimentale, culturale e di studi.

b) L’apertura dei primi componimenti ripropone la dimensione dualistica:
– l’amico-poeta, che prima è legato da un trattino (Delusione da un amico-poeta) e dal quale deriva una delusione, letta come una patologia, si scinde successivamente in due figure L’amico e il poeta, questa distinzione è un elemento di incomunicabilità in quanto ogni figura si propone all’altro nel ruolo di una contrapposizione non dialogica;
Dialogo con musa intorno al preludio di Bach: in questa poesia l’autrice apre un dialogo tutto interiore tra ricordo e dimenticanza, accompagnato da una colonna sonora che sostituisce l’assenza nel testo di ritmi e di armonie significative; il recupero virtuale del trait-d’union verbale del dialogo rappresenta l’aspetto personale di una riflessione, l’immagine che viene restituita è quella comunque frammentata di uno specchio infranto, infatti la scelta delle parole è fatta di alternanze, dittologie e associazioni che attribuiscono ancora una volta dualismo, ambiguità e molteplicità ad ogni espressione che si conclude appunto con la bella figura «dentro ero un pianto afoso» che riunifica nell’identità del pianto il coefficiente liquido e sensibile con quello del vapore che è per sua natura una sublimazione.

Mi riprometto di tornare, con una lettura più approfondita, ad analizzare altre sfaccettature della scrittura di Sabatina Napolitano.
Credo che l’autrice abbia in mano, oltre a delle carte, una buona penna, alla quale mi sento, però, di consigliare una maggiore cura nella fase che segue l’afflato creativo della composizione, per superare la fascinazione incantatrice delle belle lettres e per dedicarsi, dunque, ad una scrittura che le sia più contemporanea e vicina.
Vale qui il monito che addita come caratteristica della poesia di dare col dire ma anche senza dire.

L’autrice:

S. Napolitano, Metastasi d’autonomia, (Nuovi echi 5), La Scuola di Pitagora, Napoli 2011, 22 pp.

BLOG: Le maschere rossehttp://gapemotivo.wordpress.com/